Il dolore è “personale”.
Ognuno ha il suo modo di gestire il proprio dolore.
C’è chi lo tiene per sé, senza farlo pesare ad altri.
C’è chi fa del teatro, accentuando le reazioni esteriori, per abitudine o per ottenere una maggiore attenzione da parte degli altri.
Il dolore è “soggettivo”.
Il mio dolore è “mio” e di nessun altro.
È mio e me lo tengo.
Altri possono partecipare al mio dolore, percepirlo empaticamente, ma rimarrà mio comunque.
Altri ancora possono sminuirlo, criticarlo, deriderlo, negarlo… sarà sempre e solo mio, magari più pesante da sopportare.
Non dimentichiamoci mai che la solidarietà, la vicinanza di altre persone, la compassione, la partecipazione empatica, la comprensione, fanno bene ed aiutano veramente tanto a sopportarlo.
La soggettività del dolore ha un fondamento anatomofisologico. Infatti, studi di imaging cerebrale rivelano che uno stimolo doloroso portato nella stessa zona del corpo, in più individui, attiva zone corticali diverse e con diversi livelli di intensità.
Il dolore è “culturalmente dipendente”.
C’è una influenza culturale nella gestione del dolore.
La parola “dolore”, pronunciata da più persone, assume significati diversi. C’è una differenza culturale nella concezione del dolore, per cui, gli stessi stimoli che per alcune popolazioni sono considerati molto dolorosi, per altre sono poco più che un fastidio.
La società del benessere (oggi purtroppo più desiderato, che reale) non accetta il dolore, neanche quello che potrebbe essere chiamato “fastidio”.
La mente gioca degli scherzi: se per un fastidioso dolorino assumo un analgesico, già dopo una volta, si creerà una piccola dipendenza psicologica e la ricomparsa di quel “fastidioso dolorino”, anche se meno intenso della prima volta, indurrà a riprendere l’analgesico con ancor più facilità.
E così, per ogni piccolezza, si assume la “pillolina” di analgesico, come fosse una semplice abitudine… banalizzando l’assunzione di farmaci potenzialmente molto dannosi.
Il dolore è “comune”.
Il dolore è una delle sensazioni più comuni, perché sostanzialmente è un un campanello di allarme sul fatto che qualcosa non va.
Esistono due categorie di dolore:
– quello che è sintomo di una alterazione, di uno squilibrio, di una disfunzione;
– il dolore-malattia, un dolore cioè che è diventato lui stesso la malattia.
Se il dolore è un segnale di allarme, conseguente ad uno stimolo che tecnicamente si dice “algogeno”, cioè in grado di generare dolore, è sicuramente più gestibile, anche con le conoscenze che normalmente fanno parte del bagaglio culturale di qualunque medico.
Quando invece il dolore diventa cronico la persona si chiude in se stessa.
Diventare “cronico” non è una scelta che compie il dolore, che un bel giorno si sveglia e decide di dire a se stesso “Sono un dolore cronico, prendetemi per tale!”.
L’aggettivo cronico è di fatto una sconfitta della Medicina, che mostra apertamente in questo caso la propria incapacità a guarirlo.
Nel dolore cronico la persona non ha più piacere di stare con se stessa, non riesce più a gioire della propria vita e il mondo.
La percezione del mondo, si trasforma in un luogo di sofferenza, di ingiusta espiazione di mali non commessi.
La domanda tipica è ”Cosa ho fatto io per meritare tanta sofferenza?!”.
Questa sofferenza viene aggravata dall’essere considerati, come spesso accade, ipocondriaci, nevrotici, depressi, inventori di mali.
Così alla sofferenza fisica si aggiunge la sofferenza morale per non essere capiti, per sentirsi soli, incompresi.
Purtroppo spesso la risposta della Medicina a questi scenari è latente.
Di fronte a chi lamenta dolori dappertutto, stanchezza, umore oscillante, cefalea ricorrente, parestesie, si compiono una serie di indagini nella speranza di trovare il valore alterato di qualche esame che possa far fare una diagnosi. Oppure si provano varie soluzioni farmacologiche.
Poi, non addivenendosi a niente, inizia l’insofferenza, la frustrazione, l’impazienza verso un paziente che si lamenta, ma che, per le conoscenze che il medico ha a disposizione, sembra non avere niente di veramente patologico in atto.
Arriva così un momento in cui il sofferente finisce col convincersi di essere davvero lui stesso il problema, perché pensa “Se tutti, medici compresi, mi dicono che non sono malato, che i dolori me li invento, che non ho nulla, che sono depresso malgrado abbia tutto dalla vita, forse sarà davvero colpa mia?!”.
E con l’insinuarsi del senso di colpa all’interno dei vissuti psicologici di quella persona, il quadro, nella sua drammaticità, si completa.
In un contesto storico di veri e propri “miracoli” tecnologici, questa è una vera sfida per la Medicina e per ogni Medico.
Anche solo per riuscire a dare un primo, ma vero e profondo piccolo bagliore.
Una sfida dove da anni mi sento impegnato in prima linea con tutto me stesso, sul piano professionale e umano.